Parla come mangi: Accademia della Crusca VS social media

Qualche giorno fa mi è successo un fatto peculiare.
Singolare per modo di dire, ma che ritengo comunque significativo.
Rispondendo a una discussione in un gruppo Facebook ed esponendo le mie ragioni e le mie perplessità come avrei fatto in qualsiasi altra circostanza, mi sono ritrovata accusata di fare inutile sfoggio di un italiano desueto, da Accademia della Crusca – e questo potrebbe essere anche un complimento – e inappropriato per un social media.

Inappropriato per un social media, già.

Oggetto dell’invettiva sul mio “inutile show-off di nozionistica della lingua italiana” (sic) il termine “disgrafia“, da me utilizzato per giustificare alcuni errori di battitura.
A detta di chi ha rilevato che il mio è stato solo un fare mostra di un italiano nozionistico e inappropriato per un social, il termine “disgrafia” è così desueto che nemmeno l’iPhone lo riconosce (ri-sic, ma anche sigh).
Piccola digressione, ecco l’ultima parte della definizione della parola disgrafia – la definizione completa secondo l’Enciclopedia Treccani la trovate qui, just in case -:  (il soggetto è il disgrafico, nda) “i suoi scritti contengono errori fonologici o sostituzione di grafemi con altri omofoni“.
Nell’uso comune, dunque, si fa riferimento a episodi di disgrafia quando, per motivi vari, si invertono lettere e grafemi al momento della scrittura. Vuoi per fretta, vuoi per disattenzione, vuoi perché, al momento scrivo solo con la mano sinistra.
Ma non è tanto questo il punto, questo è sì solamente un esercizio, più o meno utile, di nozionistica della lingua italiana.
No, il punto è un altro: il mio italiano non è appropriato per un social network. Troppo corretto forse, troppo aulico, troppe poche abbreviazioni, niente utilizzo delle “k”, non so.

Resta che, secondo il soggetto X, sui social bisogna parlare come si mangia.

Se parlassi come mangio, non sarebbe un bello spettacolo, diciamo che la mia dieta si prende più licenze del mio italiano.
Facciamo un’altra digressione, che fa sempre bene.
Io non credo di avere un italiano ineccepibile e da Accademia della Crusca, ma credo tuttavia di possedere una buona padronanza della mia lingua madre, una discreta consecutio – che poi, non ci prendiamo per il culo, gli errori li facciamo tutti -, un vocabolario abbastanza esteso e una fluidità nella scrittura e nella redazione di testi che quantomeno mi dà lavoro.
Certo, faccio errori.
Certo, faccio anche orrori ogni tanto. Sintatticamente sono piena di imperfezioni. Stilisticamente pago lo scotto di due anni, o quasi, passati a ingozzarmi di tomi giuridici per scrivere duecento e passa pagine di bla bla bla sul segreto di Stato.
Faccio abuso di incisi. Ma guardiamo il lato positivo, lo spirito dei giuristi e dei latinismi – quelli a volte veramente superflui, come dimostrato da un “nihil novi sub sole” buttato a casaccio all’inizio di un paragrafo – non ha mi ha colpita.
Ok, ho mentito, li uso, ma ancora una volta non è questo il punto.
Il mio italiano sarebbe dunque inappropriato e troppo nozionistico per i social network.
Questo è il punto.
Questo è ciò che da qualche giorno non mi dà pace. Almeno quanto i miei vicini.
No, non ho una vita triste e vuota perché mi arrovello su questa affermazione, ma essendo un’operatrice della comunicazione e guadagnandomi da vivere proprio con le mie abilità linguistiche, con la mia padronanza – vera o presunta – della lingua italiana e anche utilizzando i social media, ecco, sarebbe stato strano se ciò mi fosse risultato indifferente.
Il succo di questo lungo esercizio di retorica, il nocciolo della questione è questo: esiste un italiano utilizzabile solo sui social?
C’è un italiano, evidentemente a me sconosciuto, che sui social – e in rete generale – funziona meglio rispetto a quello che ho studiato a scuola o che ho appreso leggendo tonnellate di cose tra libri, riviste e persino i bugiardini dell’aspirina?
Io una risposta me la sono data, ed è negativa.
La lingua, al di là dei neologismi, è una. Se ne può avere una padronanza più o meno buona, una conoscenza delle regole grammaticali e sintattiche diverse a seconda dell’istruzione personale o all’abitudine a scrivere. O di cosa scriviamo.
Certo, ammetto che Twitter sia un’istigazione all’utilizzo di abbreviazioni per poter sfruttare al meglio 140 caratteri, ma è proprio quella la sfida: esprimere un concetto efficace con un numero ristretto di caratteri. Non sempre ci riesco, ma mi diverto a provarci.

[Nota su Twitter e sull’italiano: no amici miei, dimenticarsi dell’apocope e scrivere “pò” anziché “po’” per guadagnare un carattere non lo ammetto, è orribile. Veramente, smettete di farlo. Vi imploro, non solo su Twitter, ma ovunque. Chiunque. Salviamo il soldato apocope, vi prego.]

Il mio italiano, con tutte le sue imperfezioni, è lo stesso sia sul lavoro, sia sui social network.
Non garantisco lo stesso nella lingua parlata, dove le influenze dialettali, vernacolari e dell’ambiente circostante sono forti, soprattutto nei momenti colloquiali e informali, come del resto è giusto che sia.

Al momento dello scrivere – lo ammetto, a volte anche su WhatsApp – la mia impostazione è questa, fatta eccezione per quando, volontariamente, voglio fare l’idiota. E anche in quei casi faccio fatica a storpiare la lingua.

Piaccia o meno all’utente X, poco mi importa, il mio stile è questo.

E aggiungerei anche sticazzi, così, tanto per, anche se il vocabolario del mio iPhone me lo riconosce come errore.